Tra le molte curiosità che giungono dal Medioevo, una delle più interessanti è quella del cosiddetto “Indovinello veronese”.
Si tratta di un breve testo vergato in carattere corsivo sul recto della pergamena 3 del Codice LXXXIX, conservato presso la Biblioteca Capitolare di Verona. Rinvenuto nel 1924 da Luigi Schiaparelli, questo brano risalirebbe alla fine dell’VIII-inizio IX secolo, costituendo così il primo testo volgare in romanzo e, probabilmente, anche la base della lingua volgare italiana. Studi successivi hanno accertato che il Codice è di origine spagnola, quasi sicuramente proveniente da Toledo, spostato poi a Cagliari, a Pisa ed infine a Verona. Un accurato esame filologico ha anche appurato che l’estensore dell’indovinello è veronese, con molta probabilità un amanuense della stessa Biblioteca Capitolare.
Il brano così recita: “Se pareba boves, alba pratàlia aràba / et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba”; che tradotto significa: “Anteponeva a sé i buoi, bianchi prati arava, /e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava”.
Quella che, a una prima traduzione letterale, può sembrare la descrizione di una scena bucolica nasconde in realtà un secondo significato, quasi un gioco enigmistico la cui soluzione, anche divertente, è la seguente: “Teneva davanti a sé i buoi = le dita della mano / e arava i bianchi prati = le pagine bianche di un libro / e aveva un bianco aratro = la penna d’oca per scrivere e un nero seme seminava = l’inchiostro”.
Quindi l’autore, probabilmente in momento di pausa nel suo lavoro presso lo scriptorium, aveva voluto raccontare in chiave allegorica il momento iniziale della sua attività, quando i buoi della sua mano si accingevano a seminare l’inchiostro sui bianchi prati delle pagine ancora vergini, accomunando in tal modo il suo lavoro intellettuale a quello dei contadini, un mondo agricolo dal quale, forse, egli stesso proveniva.