Giuseppe Garibaldi: uno spirito rivoluzionario e sognatore

Le sue rughe portavano con sé il sale dell’Atlantico brasiliano, il sole delle città uruguagie, la terra dei monti italiani e il fango delle paludi della penisola, insieme al sudore e all’odore di polvere da sparo bruciata in mille battaglie combattute lungo i fiumi sudamericani e nelle città lombarde, sulle mura di Roma e in ogni angolo dell’Italia che ancora non c’era. Anche quando Garibaldi appariva un generale sabaudo o un senatore monarchico, tutta la sua storia ribolliva nel suo sangue e lo rendeva comunque un rivoluzionario, un sognatore, un idealista. Un eroe, ma pur sempre un personaggio scomodo. L’Italia unita per lui non doveva essere solo una conquista territoriale e politica, ma l’avanguardia e il modello di un mondo nuovo, in cui le idee rivoluzionarie dovevano concretizzarsi in progressi sociali e civili a tutela dei più poveri e ad esempio per il mondo.

Giuseppe Garibaldi nel 1861

Questo era il sogno che animava fin da giovane Giuseppe Garibaldi, questo è lo spirito che lo ha reso non solo un generale vittorioso e conquistatore, ma un’icona mondiale, l’incarnazione universale del combattente per la libertà. Per quanto con pragmatismo a un certo punto si sia messo a disposizione di Casa Savoia pur di raggiungere gli obiettivi minimi che riteneva indispensabili, nel suo cuore il fuoco della rivoluzione non ha mai smesso di ardere. “Garibaldi fu sempre un rivoluzionario – sottolinea Cosimo Ceccuti, professore di storia contemporanea all’Università di Firenze – e non mancò mai di accorrere a difendere gli oppressi mettendosi in pericolo in prima persona. Il suo mito nasce da questo: ovunque fosse non si tirava indietro, si metteva a disposizione e combatteva per tutte le cause giuste in cui si imbatteva, contro tutti gli invasori, in nome della libertà”.

La fase in cui il suo cuore poté avere liberamente il sopravvento sulla ragione fu naturalmente quella giovanile. Non c’erano calcoli politici e opportunità diplomatiche che lo costringessero a dire “obbedisco”. Fin da giovanissimo si imbarcò sulle navi che navigavano verso terre lontane. Fu probabilmente in un viaggio verso Istanbul e la Crimea che Garibaldi venne conquistato dalle idee rivoluzionarie dei mazziniani che facevano parte dell’equipaggio. Si convinse ad aderire alla Giovine Italia, sposando appieno gli ideali unitari ma anche repubblicani che Mazzini predicava. Nel 1834, a 27 anni, Garibaldi venne scelto da Mazzini per essere il referente e l’agitatore dei moti rivoluzionari da tentare nel Regno di Sardegna, anche presso la Marina Militare in cui si era arruolato a Genova. “Un fallimento annunciato – spiega Ceccuti – Pur avendo gettato il cuore oltre l’ostacolo con una certa ingenuità, a un certo punto Garibaldi si rese conto del fallimento imminente e abbandonò l’impresa. Scappò, e venne raggiunto da una condanna a morte in contumacia, condannato per una rivoluzione mai fatta”.

Fu un momento di svolta per la sua vita: fuggì in Brasile, dove continuò a partecipare con altri italiani esuli alle riunioni della Giovine Italia. Intanto contro l’impero brasiliano scoppiarono molte ribellioni secessioniste e democratiche. Garibaldi non poté esimersi di offrire generosamente i suoi servigi agli insorti del Rio Grande del Sud, mettendo a disposizione della rivoluzione quello che lui sapeva fare: navigare, con lo scopo di attaccare le navi del Brasile e i traffici dei suoi alleati, ivi compresi l’Austria e il Piemonte, sperando che in questo modo avrebbe indirettamente favorito anche la causa italiana. “Nacque così l’equivoco di Garibaldi pirata – spiega Ceccuti – Ma invece c’è una profonda differenza: era un rivoluzionario, non un brigante, e lo dimostra il fatto che chiese le lettere di marca, cioè le licenze che lo classificavano come un combattente che in caso di cattura non andava impiccato ma trattato come un prigioniero di guerra”.

Giuseppe Garibaldi: un rivoluzionario… corsaro al timone della nave “Mazzini”

Lettere di corsa che sono una preziosa testimonianza del pensiero e dello spirito che animava Garibaldi: egli infatti le ottenne dalle autorità del Rio Grande, ma in realtà lui le aveva richieste a Mazzini. “Chiara indicazione – sottolinea Ceccuti – che per Garibaldi la Giovine Italia rappresentava la prefigurazione di uno Stato, e di conseguenza ne doveva avere l’autorità. Forse un’altra ingenuità, ma anche l’espressione di un pensiero fortemente rivoluzionario, in cui le nazioni esistono perché espressioni del loro popolo”.

Preso il mare nel 1837 su una barca chiamata Mazzini con dodici uomini d’equipaggio, otto dei quali italiani, si trovò ad affrontare una serie di situazioni ad altissimo rischio che fecero emergere tutte le sue capacità e il suo sangue freddo, iniziando a forgiare quello che stava diventando l’Eroe dei due mondi. Rivoluzionario anche nella pietà umana e cavalleresca che sempre praticò verso i nemici, benché egli abbia invece subito torture, soprusi e ferite che avrebbero potuto essere mortali. Ma in Brasile le cose non andavano bene, e con una ardita marcia di 150 giorni Garibaldi si trasferì a Montevideo, dove incontrò una nutrita schiera di esuli italiani.

L’Uruguay era in preda alla guerra civile fra i progressisti e i latifondisti, e Garibaldi non ebbe dubbi su chi sostenere con l’attività politica e l’esperienza militare. Fu così che nel secondo anno di guerra, durante l’assedio subito da Montevideo nel 1843, nacque la Legione Italiana, che riuniva 600 volenterosi esuli di ispirazione mazziniana, organizzati in 8 compagnie, al comando dell’allora colonnello Garibaldi. La camicia rossa era la loro divisa, una bandiera nera con un vulcano in eruzione il loro vessillo. Per tutti loro, la Legione non poteva essere nulla di meno di un’avanguardia combattente dell’Italia futura. In quel conflitto Garibaldi non era un irregolare, un guerrigliero, ma si considerava un militare alle dipendenze di un governo che si era scelto, perché voluto dal popolo. Dai grandi successi colti con la Legione Italiana nacque la prima fama internazionale di Garibaldi. Nel 1846 la sua abilità militare conseguì la vittoria di San Antonio del Salto, che ebbe un grande valore anche sotto il profilo del morale.

Giuseppe Garibaldi: il rientro in Italia da leader

A quel punto anche i rivoluzionari italiani, che si stavano risvegliando, iniziarono a considerare l’esiliato Garibaldi come un loro possibile leader prossimo al ritorno. E Garibaldi non li deluse, giungendo in Italia in tempo per partecipare alle grandi speranze e agli eventi del 1848. Per prima cosa tramite il nunzio a Montevideo si mise a disposizione di papa Pio IX che in quel momento sembrava il leader ispiratore dei liberali italiani. Poi con Anita, i figli e una settantina di legionari sbarcò a Nizza in tempo per partecipare alla Prima guerra di Indipendenza tra Bergamo e Varese, nonostante lui e la sua banda di avventurieri e guerriglieri giunti dal Sud America con sentimenti repubblicani non fossero affatto ben accolti dall’aristocratico esercito sabaudo fondato sulla lunga formazione nelle Accademie militari. Ma quella guerra non portò a nulla, mentre un’altra fiammata si accendeva in Italia: la Repubblica Romana, guidata da quel Mazzini che di Garibaldi era stato il maestro teorico, anche se iniziavano ad affiorare i primi contrasti sulle condotte pratiche da tenere.

L’Eroe dei due mondi non esitò a correre in difesa della Repubblica assumendone non senza contrasti politici la guida militare sul campo. Presto riportò una prima vittoria sui francesi, cui seguirono quelle di Palestrina e di Velletri, ma il governo repubblicano lo fermò allo scopo di trattare. Da un punto di vista pratico, forse il più estremista, il più rivoluzionario tra i leader del 1848-49 fu proprio Garibaldi, che voleva condurre la guerra fino alle sue estreme conseguenze e si oppose all’armistizio con i francesi volendo infliggere loro il colpo di grazia.

Ma i politici trattarono la tregua, e proprio come aveva previsto il generale i francesi la impiegarono per raccogliere i rinforzi e dare il colpo di grazia alla Repubblica. Ciononostante Garibaldi non si indispettì, e l’accanimento ostinato con cui guidò gli ultimi giorni della difesa sul Gianicolo difendendo ogni metro palmo a palmo fece della fine della Repubblica una delle pagine più gloriose di tutto il Risorgimento e della sua esperienza personale. La sua determinazione anche di fronte a una causa persa permise al Parlamento romano di proclamare quella costituzione della Repubblica cui esplicitamente si ispirò poi nei principi fondamentali la Costituzione repubblicana del 1948.

Giuseppe Garibaldi: la perdita di Anita e l’approdo a un approccio più pragmatico

Seguì un altro tragico capitolo della sua epopea, la drammatica fuga da Roma attraverso gli Appennini, nel tentativo di continuare la resistenza ideale raggiungendo Venezia che ancora combatteva. Un esodo che gli costò carissimo, perché vi perse l’adorata moglie Anita, vera anima gemella, compagna delle sue avventure. Si potrebbe dire che con lei Garibaldi seppellì la sua fase giovanile, e anche gli aspetti più idealistici e avventati che di essa furono un tratto caratteristico. Ma intanto nasceva una nuova speranza: “L’Italia era vista come una ‘terra di morti’ – afferma il professor Ceccuti – che aveva lasciato annettere Venezia all’Austria senza un colpo di fucile. Il fatto che Garibaldi fosse uscito vivo e indomito dai fallimenti del 48-49 e dalla caccia spietata che gli davano gli austriaci ebbe un enorme valore simbolico, era il ponte lanciato verso il futuro: gli italiani potevano dire ‘nonostante tutto, almeno abbiamo ancora Garibaldi’”.

Anche se dalle paludi emiliane emergeva un Garibaldi più pragmatico, il quale – attraverso alcuni anni di pausa trascorsi ancora una volta lontano dalla patria – si convinse che la causa italiana in quel momento storico poteva essere servita al meglio solo in unione con Casa Savoia. Cosa che poi non gli precluse l’avventura della Spedizione dei Mille, i contrasti con l’establishment, e le mai tollerate puntate contro la Roma del Papa. Ma questa è storia nota, che mai si sarebbe realizzata se lo spirito della rivoluzione non si fosse acceso in Garibaldi tra Genova, il Sud America e Roma.

Osvaldo Baldacci

Nato nel 1972 a Roma, dove vive e lavora, giornalista professionista, laureato in Lettere-Archeologia presso l’Università La Sapienza di Roma, scrive da vent’anni sulla stampa quotidiana, è analista di geopolitica, collabora con riviste di divulgazione soprattutto storica. La storia è la sua passione totalizzante, da sempre.

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