I Romani e la tattica. Ecco da chi la appresero

Gli storici romani non hanno dubbi: le armate di Roma adottarono armamento e tattica degli opliti greci, mutuandolo dagli Etruschi. Ne sono quasi orgogliosi, ripetendo con insistenza come i Romani fossero capaci di imparare dai propri nemici per superarli al loro stesso gioco. Valorizzare la capacità di un popolo di apprendere per imitazione dagli altri, giungendo a migliorare le stesse prestazioni dei precursori, sembra però essere più una lezione morale che una fondata testimonianza storica.

Gli Etruschi avevano in effetti instaurato rapporti con il mondo greco già nell’VIII secolo a.C. quando in Italia comparvero le prime basi greche a Pithecusa e Cuma, anzi avevano sviluppato un vivo interesse per tutto ciò che era “orientale”, armi comprese. I Greci avevano assimilato le tecniche di combattimento della fanteria “pesante” dalle popolazioni orientali, innanzitutto Assiri e Sumeri, che per primi avevano impiegato già nel IX secolo a.C. le lunghe fila ordinate in successione di guerrieri in formazione serrata, protetti da scudo, elmo e corazza e armati di lancia e spada. Nel secolo successivo, questa particolare forma di combattimento arrivò in Grecia, probabilmente a partire dall’Eubea, i cui artigiani diventarono presto esperti nella fabbricazione di corazze di bronzo e di buone spade in ferro.

Benché la tribù sia ancora – e rimanga a lungo – lo strumento di reclutamento e di organizzazione delle truppe, anche in Grecia si abbandona la spontaneità della formazione tribale e si comincia a combattere disponendo i guerrieri in ordinate linee successive, costituendo così una specie di rettangolo, già chiamato falange, di profondità uniforme e sviluppato in lunghezza per rispondere alle esigenze dell’ampiezza del campo di battaglia e della formazione nemica. A questi aspetti prettamente tattici, se ne sovrappongono altri tecnologici. Nel VII secolo a.C. a Corinto viene inventato l’elmo corinzio, che ha la caratteristica di lasciare solo gli occhi e la bocca scoperti, e da qui si diffonde velocemente nel resto della Grecia e nelle sue colonie.

I Romani e la tattica. L’invenzione dell’hoplon

Più o meno nello stesso periodo, forse nella vicina Argo, viene inventato l’hoplon, il singolo elemento della panoplia greca che incontrerà maggiore successo e vita più lunga. Si tratta di uno scudo circolare di 80-100 centimetri di diametro, con una forma marcatamente convessa ottenuta lavorando la sua solida struttura in legno, che può essere rinforzata sovrapponendo su tutta la superficie esterna una sottilissima lamina in bronzo (mezzo millimetro) che le conferisce, quando viene lucidata, quasi la lucentezza di uno specchio. Scudi più leggeri ed economici hanno un rinforzo metallico solo lungo la circonferenza. La sua caratteristica distintiva è data dal modo in cui è sostenuto dal guerriero. L’impugnatura è costituita da due prese: una centrale a forma di semicerchio, chiamata porpax, attraverso la quale veniva fatto passare l’avambraccio sinistro fino al gomito, e una all’estremità dello scudo, la antilabe, una corda che veniva afferrata dalla mano. Questa impugnatura, inventata forse in Caria, consente di distribuire il peso dello scudo su tutto l’avambraccio anziché unicamente sulla mano.

Un ulteriore importante sostegno caratteristico del solo hoplon, però, è fornito dalla spalla sinistra, che può essere utilizzata come appoggio al bordo superiore dello scudo, marcatamente convesso. Distribuendo il peso tra avambraccio e spalla, il guerriero può meglio sopportare gli 8 chili di peso medio dell’hoplon. Insieme a un elmo in bronzo di varia foggia, e alla dory o doru, una solida lancia lunga 2,5 metri e più, l’hoplon costituisce il nucleo fondamentale della panoplia oplitica greca, che poteva essere completata da schinieri e da una corazza in bronzo, parziale o completa.

Queste armi, in particolare l’hoplon, sono state rinvenute in Etruria e sono databili a partire dalla metà del VII secolo a.C., e nello stesso periodo appaiono anche immagini che ritraggono guerrieri equipaggiati con l’hoplon. Tuttavia, sia i ritrovamenti archeologici sia le immagini ci hanno restituito anche guerrieri con l’hoplon ma armati di giavellotti o altre armi, come le tipiche asce etrusche, e persistono guerrieri con scudi ovali, assai diffusi in Italia. Ci sono dunque sufficienti prove che almeno una parte dei ceti più abbienti della società etrusca abbia adottato il costoso hoplon, ma non possiamo dire come combattessero.

La stessa tattica oplitica in Grecia conobbe un lungo periodo di elaborazione e di maturazione che giunse al culmine solo con le Guerre persiane e con quella del Peloponneso, nel V secolo a.C., ben un secolo e mezzo dopo l’arrivo in Etruria della panoplia oplitica. Nel periodo precedente la falange greca è ancora lontana dallo strumento perfezionato che compirà complicate evoluzioni sul campo di battaglia, caricherà a passo veloce mantenendo ordine e compattezza tra gli uomini, consentirà loro di proteggersi reciprocamente con l’hoplon, li farà combattere con le lance come dietro un muro di scudi, ed è anche capace di agire come un rullo compressore che travolge gli avversari con una spinta corale e irresistibile.

I Romani e la tattica. Differenze sociali tra Grecia e Italia

Tra Grecia ed Etruria, inoltre, corre una sostanziale differenza sociale e politica che rende problematica l’adozione “letterale” dell’oplitismo: questo, infatti, presuppone una società omogenea perché la falange oplitica è una comunità di eguali in armi, idealmente ispirata ai precetti del leggendario legislatore spartano Licurgo, mentre gli Etruschi sono fortemente segmentati in classi sociali, e se in Grecia si calcola che almeno la metà della popolazione maschile potesse permettersi la costosa panoplia oplitica, in Etruria sono i nobili locali che armano i loro clienti in caso di guerra. È molto probabile dunque che in Italia non sia mai stato adottato un modello oplitico “puro”, bensì un ibrido che adattava e reinterpretava in qualche modo le tattiche oplitiche greche al contesto sociale e alle tradizioni militari italiche. In che cosa è consistito, dunque, il passaggio di conoscenze tra Grecia e Etruria, che successivamente  influenzò anche Roma? Un indizio illuminante lo possiamo trovare nell’opera I Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati, filosofo greco del II secolo d.C.: “E dai Tirreni [gli Etruschi] essi [i Romani] derivarono la pratica di far avanzare in battaglia l’intero esercito in falange chiusa”. Fu questa, forse, la rivelazione decisiva: l’esistenza stessa della techne taktike, l’arte tattica.

Etruschi prima e Romani poi scoprirono non solo e non tanto i vantaggi di combattere in modo ordinato, ma come si doveva fare per riuscirci. Vedere marciare sul campo di battaglia per centinaia di metri una formazione precisamente allineata era uno spettacolo mai apparso su un campo di battaglia italico. Veder passare quella formazione da una colonna di marcia a una linea di combattimento senza esitazioni, senza confusione, conservando precise geometrie tra i ranghi, doveva provocare ammirazione mista a timore. Per riuscirci bisognava imparare delle metodologie e addestrarsi a un combattimento collettivo, molto più efficace di quelli fino ad allora praticati. La parola greca taktike deriva da taktikos, “ordinato”, e significa “mettere in ordine”: al di là dell’adozione di uno scudo rotondo o di uno stile di combattimento, fu proprio questo “mettere ordine” nell’azione militare e nel combattimento, la possibilità di disciplinare l’entusiastico furore guerriero dei Romani, che sicuramente li meravigliò indicando loro la strada da percorrere.

Nicola Zotti

Nicola Zotti, classe 1957, dopo aver insegnato a livello accademico Storia dell'Arte Militare e Analisi strategica si è dedicato alla loro divulgazione tramite il sito internet www.warfare.it, il gruppo Facebook "Warfare - Storia militare e cultura strategica", che conta ormai 4.000 partecipanti, e soprattutto grazie agli articoli scritti collaborando tra l'altro con Repubblica, Il Riformista, Civiltà, e, attualmente, con le riviste storiche della Sprea Editori.

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