L’ “esperimento Filadelfia” fra leggenda e realtà

Nell’ottobre 1943 fu realizzato nella baia di Filadelfia un esperimento “scientifico”, conosciuto sotto il nome di “Philadelphia Experiment”, che generò, quando fu conosciuto dopo la guerra, innumerevoli studi, articoli, libri, prese di posizione, e persino film di grande successo, nonostante la totale assenza di documentazione ufficiale sull’enigmatico episodio. 

Perché tanto interesse, tanta curiosità, tanto clamore?

Perché le finalità del preteso esperimento andavano oltre i limiti della scienza conosciuta! Si trattava, in effetti, di un procedimento teso a far sparire letteralmente o comunque a rendere invisibile qualunque oggetto, dal più piccolo al più grande, persino un incrociatore della US Navy! Un’arma che avrebbe reso invincibili gli Stati Uniti. Non solo.

L’esperimento di Filadelfia pretendeva anche di aver provocato il telestrasporto (trasporto istantaneo della materia attraverso lo spazio da un luogo all’altro) dell’incrociatore USS Eldrigde DE 173, che per qualche minuto sarebbe stato visto a centinaia di chilometri di distanza dalla baia di Filadelfia, prima di ri-materializzarsi esattamente nel luogo dove si trovava prima dello “spostamento”. 

Fantascienza, pura invenzione o c’era qualcosa di vero che poi, nella narrazione della storia, era stato ingigantito, snaturato e distorto a fini sensazionalistici e commerciali?

Tutto nacque da una lettera scritta da un ex marinaio della marina mercantile Carlos Allende (o Car Allen) a un astrofisico dilettante, ufologo e scrittore di successo, Morris J. Jessup, convinto che gli alieni avessero la capacità, utilizzando potenti campi elettromagnetici, di “deformare” le dimensioni spazio/tempo per attraversare immense distanze interstellari.

Jessup si mostrò naturalmente molto interessato agli eventi narrati e avviò una fitta corrispondenza con l’ex marinaio per approfondire le circostanze del misterioso evento e per richiedergli anche qualche prova. Callen tuttavia rispose in maniera poco chiara, sostenendo di non essere in grado di fornire “prove scientifiche”, insistendo tuttavia sul fatto di aver assistito di persona all’esperimento.

La corrispondenza tra i due finì così per affievolirsi, ma l’astrofisico, sulla base delle informazioni ricevute, avviò sue personali ricerche e investigazioni. 

Pubblicò in seguito un libro sugli extra-terrestri dal titolo “The expanding case for the UFO”, in cui faceva ampi riferimenti all’esperimento di Filadelfia e ai campi elettromagnetici come strumento per forzare le dimensioni spazio/tempo.

Fu allora contattato dall’Office of Naval Research di Washington, organismo che coordina tutti i programmi scientifici e tecnologici della US Navy, incuriosito verosimilmente dall’evocazione di un esperimento classificato top secret.

Ma alla vigilia dell’incontro, lo scrittore morì intossicato dai gas di scarico della sua autovettura. Ufficialmente si disse che si era suicidato a causa di una forte depressione, che covava da lungo tempo, dovuta al divorzio, al calo della sua popolarità e all’insuccesso del suo libro.

Per molti invece era stato eliminato perché non parlasse più delle sue conclusioni sull’esperimento di Filadelfia. Mistero nel mistero o mera coincidenza?

La questione tornò d’attualità nel 1970, quando fu pubblicato il libro: “Il Mistero Filadelfia: progetto invisibilità” di William Moore e Charles Berlitz.

Gli autori attiravano l’attenzione del grande pubblico su quanto avvenuto trent’anni prima a Filadelfia. 

La tesi era in sostanza che la Marina militare americana il 28 ottobre 1943, alle 17,45, aveva innestato l’esperimento, provocando un potentissimo campo magnetico sull’incrociatore USS Eldrigde attraverso degli immensi generatori piazzati nelle sue stive.

All’inizio la nave sarebbe stata ricoperta da una strana luce verde, mentre i suoi contorni avrebbero cominciato a rarefarsi, come un disegno gradualmente cancellato, fino a lasciare visibile solo la sua linea di galleggiamento.

A conclusione di quella misteriosa sperimentazione, tutto l’equipaggio avrebbe sofferto di forti vertigini e conati di vomito, tanto da dover essere sostituito rapidamente.

Quello stesso giorno – secondo gli autori – si sarebbe svolto un secondo esperimento, che questa volta avrebbe comportato addirittura la totale sparizione dell’incrociatore, del quale sarebbe rimasto visibile solo il “buco” lasciato nell’acqua dalla sua presenza.

E’ il momento in cui l’incrociatore sarebbe stato avvistato a Norfolk da Car Allen, che navigava a bordo della Andrew Furuseth. 

All’evidenza dunque non possiamo che trovarci di fronte a una pura invenzione, a un frutto della fantasia, ammantata da considerazioni pseudoscientifiche e che non regge al confronto di semplici riscontri oggettivi.

Intanto già dall’esame del diario di bordo delle due navi, si può escludere che le due unità evocate siano state coinvolte nell’esperimento.

Risulta, infatti, dalle sue carte che l’USS Eldridge mai gettò l’ancora nella baia di Filadelfia e la Andrew Furuseth salpò da Norfolk alla volta di Orano il 25 ottobre 1943, ossia tre giorni prima del preteso esperimento!

Le presunte finalità dell’esperimento erano poi fisicamente impossibile da realizzare.

Nemmeno con l’odierna tecnologia si può ipotizzare di far sparire il benché minimo oggetto, figuriamoci nel 1943 e alle prese con un incrociatore! Insomma, come si direbbe oggi, si trattava di una “fake news” colossale. 

Ma allora perché ci furono tanto interesse e curiosità, perché si sviluppò il “mito” del Philadelphia Experiment? 

L’unica spiegazione possibile è che il mito si sia sviluppato alla luce di un evento che non aveva nulla a che fare con la fantascienza. Un esperimento cioè di minore portata, tenuto segreto dalle autorità per esigenze di sicurezza nazionale, sul quale poi si è scatenata la fantasia di scrittori e giornalisti in cerca di scoop.

Si sa che le forze armate americane durante la seconda guerra mondiale realizzarono diversi esperimenti militari alla ricerca di nuove e più micidiali armi. Esperimenti fatti anche su persone inconsapevoli e ignare, le quali subirono spesso notevoli danni alla loro salute fisica e mentale. 

Si può di conseguenza ragionevolmente ritenere che nell’autunno del 1943 alcune sperimentazioni furono effettuate su imbarcazioni della US Navy, per studiare i possibili effetti della creazione di un forte campo magnetico.

L’obiettivo sarebbe stato insomma molto più modesto e limitato rispetto a quello di rendere invisibile una nave.

Si voleva cioè solo capire come, attraverso appunto i campi magnetici, si sarebbero potuti sviare i siluri nemici per proteggere le unità americane dagli attacchi degli U-Boot. A tal fine una nave sarebbe stata avvolta da enormi cavi elettrici attraverso i quali sarebbe passata corrente ad alto voltaggio.

La “rete” elettrica avrebbe così annullato la forza di attrazione magnetica, il che avrebbe sviato i siluri nemici allontanandoli dal proprio obiettivo. Un’eccellente difesa insomma della nave. 

Oppure, finalità un po’ più avveniristica ma possibile, il potente campo magnetico avrebbe “assorbito” le onde magnetiche provenienti dai radar, consentendo alla nave di “sparire” dagli schermi del nemico. 

In qualche modo, quindi, si sarebbe trattato sì di un “progetto invisibilità”, ma di un’invisibilità riferita alla possibile cancellazione delle tracce telematiche di una nave dagli schermi dei radar nemici e non certo alla sparizione “fisica” della nave stessa!

 

 

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(Immagine di sfondo: la USS Eldridge in navigazione nel ’44. Fonte: Wiki)

Domenico Vecchioni

Domenico Vecchioni. Già Ambasciatore d'Italia, saggista e storico. Ha al suo attivo numerose biografie storico-politiche (tra cui "Evita Peron" e "Raul Castro") e studi sulla storia dello Spionaggio (tra cui "Storia degli agenti segreti. Dallo Spionaggio all'Intelligence" e "le 10 spie donna che hanno fatto la Storia").

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