Politica e corruzione nell’antica Roma: il processo a Verre

L’inverno di Roma, nel 70 a.C., fu insolitamente rovente. Il “processo del secolo” catalizzava l’attenzione del popolo, in attesa di vedere sul banco degli imputati un personaggio eccellente come Gaio Licinio Verre, ex propretore della Sicilia, accusato di concussione dagli abitanti della provincia. A difenderlo, un collegio di avvocati di prim’ordine, capitanato da Quinto Ortensio Ortalo, principe indiscusso del Foro. A puntare il dito contro di lui, invece, un giovane e appassionato oratore, Marco Tullio Cicerone, che aveva preso a cuore l’appello dei siciliani per tentare un’impresa quasi impossibile: far condannare un senatore colpevole di malgoverno con una sentenza che poteva cambiare la Storia.

Cicerone aveva allora 36 anni e già da un decennio calcava la scena politica e l’agone del Foro, ma questo era il suo primo incarico decisivo. Conosceva lo scenario molto bene. Cinque anni prima, nel 75 a.C., era stato questore a Lilibeo (l’odierna Marsala) e aveva apprezzato la ricchezza della regione (soprannominata “granaio della Repubblica” per le abbondanti messi), che era anche un centro artistico e culturale di prim’ordine, data la cospicua eredità magnogreca. Cicerone aveva sentito parlare anche di Verre, uno scaltro e avido senatore che si era dato da fare, tanto in Italia quanto in Oriente, per soddisfare la sua insaziabile brama di denaro e di potere.

Politica e corruzione nell’antica Roma: Verre, un’ascesa finanziata dal furto

Prima di diventare governatore della Sicilia, Verre era stato questore in Gallia Cisalpina insieme al console Gneo Papirio Carbone, con il compito di amministrare la cassa dell’esercito. All’epoca, la Repubblica era dilaniata dalla guerra civile scoppiata tra i sostenitori di Lucio Cornelio Silla, capo degli “ottimati”, e quelli di Gaio Mario, leader dei “popolari”. Non appena si era accorto che la fazione di Silla stava per prevalere, Verre aveva abbandonato il popolare Carbone, sparendo insieme all’intera cassa.  I soldi, ben 600 mila sesterzi, non furono mai ritrovati. Più tardi, messo alle strette, avrebbe sostenuto di averli nascosti a Rimini, dov’erano stati poi saccheggiati dalle truppe. Probabilmente, invece, quel denaro era servito a finanziare la sua ascesa politica, oliando alla bisogna gli ingranaggi del potere.

Nell’80 a.C., infatti, Verre divenne legatus e poi questore grazie all’appoggio del governatore di Cilicia, Gneo Cornelio Dolabella. Anche lì, dopo essersi accaparrato il patrimonio del figlio di un certo Malleolo, di cui era tutore, Verre aveva scaricato il suo mentore, finito sotto processo per malgoverno. La spericolata ascesa politica era quindi proseguita con l’elezione a pretore urbano (ottenuta comprando i voti) e in seguito a pretore (carica gestita in maniera spregiudicata, vendendo sentenze al miglior offerente). Infine era arrivata, per sorteggio, la propretura in Sicilia, accompagnata da un colpo di fortuna: la carica doveva durare un solo anno, ma nel 73 a.C. l’isola era minacciata dagli schiavi ribelli di Spartaco, per cui il Senato decise di prolungare il mandato di Verre per altri due anni, così da favorire il mantenimento dell’ordine pubblico.

Quando, a rivolta degli schiavi ormai placata, giunse per Verre il momento di lasciare il posto, aveva accumulato un’enorme fortuna; non solo in denaro (racimolato anche grazie al prestito a usura), ma anche in innumerevoli oggetti d’arte, dai quali era attratto in modo ossessivo. Non ebbe neanche il tempo d’imbarcarsi per Roma che i siciliani, tirato un sospiro di sollievo, si organizzarono per vendicarsi. L’idea era quella di costituirsi parte civile, trascinando Verre in tribunale con un’accusa infamante (per quanto purtroppo non infrequente): “de pecuniis repetundis”, cioè concussione. Mancava però il grande accusatore, un avvocato che raccogliesse le prove del suo rapace malgoverno e le portasse davanti al pretore Manio Acilio Glabrione, allora presidente del tribunale che si occupava di quel tipo di cause.

Politica e corruzione nell’antica Roma: per l’accusatore, Cicerone, un’occasione per fare carriera

Si ricordarono allora del brillante ex questore di Lilibeo, nel frattempo rientrato anche lui a Roma, e decisero di contattarlo. Cicerone aveva ascoltato i legati delle città sicule (c’erano tutti, tranne quelli di Messina, Siracusa e Lentini), valutando attentamente la loro proposta. Difendere un imputato di peso era senz’altro un incarico prestigioso, mentre lo era assai meno rivestire il ruolo dell’accusa. D’altra parte, accettare di patrocinare un gran numero di città tiranneggiate da un funzionario corrotto era un’occasione irripetibile per farsi pubblicità, accaparrarsi il favore della plebe e bruciare le tappe di una brillante carriera politica. Tanto più che Cicerone accarezzava l’idea di candidarsi, a luglio, alla carica di edile.

A sedurlo ulteriormente era la prospettiva di dimostrare le sue capacità oratorie e il suo valore nel Foro, agone che vedeva in quegli anni trionfare Quinto Ortensio Ortalo. Misurarsi con un uomo di tal calibro era dunque più che una semplice sfida: era la chance che attendeva da sempre. Nel gennaio del 70 a.C., Cicerone presentò a Glabrione una richiesta formale per mettere Verre in stato di accusa per concussione. Verre però non rimase a guardare. Ortensio, nominato suo patronus (difensore) insieme a Lucio Cornelio Sisenna e all’advocatus Publio Cornelio Scipione Nasica, sfruttò la prassi processuale: essa prevedeva, in caso ci fossero più accusatori, la divinatio. In pratica, si trattava di trovare un altro accusatore, più compiacente dell’arcigno Cicerone, che si proponesse di contestare a Verre gli stessi identici reati; secondo la legge, il tribunale avrebbe dovuto a quel punto decidere quale dei due accusatori incaricare, e se Cicerone fosse finito fuori gioco, la strada per Ortensio sarebbe stata tutta in discesa.

Cicerone, però, mediante un’appassionata orazione convinse il tribunale di essere persona ben più preparata e onorabile di Quinto Cecilio Nigro, un attaché di Verre, scelto dalla difesa come accusatore fittizio, e mise a segno il suo primo punto. A Ortensio, incassato lo smacco, non restò che far ritardare il più possibile l’inizio del processo. Il nuovo anno, tutti lo sapevano, avrebbe portato giudici più compiacenti di Glabrione, che aveva fama di essere integerrimo. Verre, inoltre, avrebbe manovrato come d’abitudine affinché i suoi alleati, tra cui lo stesso Nasica, acquisissero cariche influenti nelle imminenti elezioni.

Arrivare a luglio era invece ciò che Cicerone voleva assolutamente evitare. Fintanto che in tribunale c’era Glabrione, la speranza di un processo equo era salva; dall’estate in poi, invece, gli amici corrotti di Verre avrebbero preso in mano il tribunale e a quel punto sarebbe stato quasi impossibile assicurare alla giustizia l’ex governatore. Era necessario anticipare il più possibile i tempi, così il 20 gennaio Cicerone chiese temerariamente a Glabrione soltanto 110 giorni per istruire il processo: se fosse iniziato ad aprile, il pericolo di dover fronteggiare giudici in combutta con la controparte sarebbe stato scongiurato.

Politica e corruzione nell’antica Roma: scaltrezza e macchinazioni dietro le quinte

Ortensio, però, era un uomo fin troppo scaltro. Sfruttando i contatti di Verre in Oriente, spinse un sodale a portare in tribunale, con la medesima accusa “de repetundis”, un vecchio governatore della Macedonia, chiedendo solo 108 giorni per prepararsi, due in meno di Cicerone: in base alla legge, il secondo processo sarebbe allora passato davanti a quello contro Verre. L’escamotage avrebbe fatto slittare il dibattimento a luglio; in tal modo gli avvocati difensori guadagnavano il tempo necessario per portarsi a ridosso delle agognate elezioni. In una forsennata corsa contro il tempo Cicerone raccolse a Roma quante più prove possibili; poi, a metà febbraio, si precipitò in Sicilia e la setacciò alla ricerca di documenti e testimoni.

Dovette anche affrontare la strisciante ostilità del nuovo governatore di Sicilia, Lucio Cecilio Metello, al quale Verre aveva promesso di finanziare la campagna elettorale romana della famiglia in cambio di protezione durante il processo. Da uomo determinato qual era, Cicerone riuscì a ottenere ciò che serviva, non senza qualche intoppo indotto “ad arte” dagli avversari, e a rientrare a Roma, giusto in tempo per presentarsi davanti al tribunale nel termine stabilito del 20 aprile, trascorso il quale il processo, per quanto rimandato, sarebbe stato annullato per l’assenza dell’accusa.

Trascorsero mesi infocati, durante i quali Verre e i suoi cercarono di screditare Cicerone, accusandolo di corruzione. Giunse infine luglio e con esso la scelta dei giurati, e non fu un momento felice: tra essi svettava infatti il nome di Marco Cecilio Metello, fratello di quel Lucio, governatore in Sicilia, cui Verre aveva promesso sostegno alle elezioni. Andò ancora peggio durante queste ultime, perché il 27 luglio non solo divennero consoli Ortensio e Quinto Cecilio Metello (un altro fratello di Lucio), ma lo stesso Marco ottenne la pretura per i processi “de repetundis”, anticamera della presidenza al tribunale. Cicerone guadagnò la carica di edile, ma non aveva nulla da festeggiare: gli eletti sarebbero entrati in carica a gennaio, quindi bastava che Ortensio fosse riuscito a rallentare o rinviare il processo di qualche mese e l’assoluzione per Verre sarebbe stata assicurata.

Il 5 agosto del 70 a.C., finalmente, il processo si aprì, e fu subito colpo di scena. Anziché iniziare come di consueto con la puntuale esposizione dei fatti (poi seguita dalla risposta della difesa), Cicerone si limitò a un fulminante discorso di 45 minuti, al termine del quale chiamò subito a deporre i testimoni. Essi esposero le accuse per nove giorni, durante i quali il Foro fu invaso dal pubblico, soprattutto di plebei: era evidente che sul banco degli imputati non c’era solo un funzionario avido, ma un’intera classe politica che aveva elevato l’appropriazione indebita a modello di gestione del potere. Verre e Ortensio rappresentavano anche ciò che restava della fazione aristocratica sillana, messa alle strette dall’incalzante ceto equestre, cui lo stesso Cicerone apparteneva: la sentenza, dunque, poteva davvero cambiare la Storia.

Politica e corruzione nell’antica Roma: la condanna e il tragico destino comune dei due nemici

La fulminea orazione ciceroniana Actio prima in Verrem impedì alla difesa di chiedere una proroga per l’approfondimento delle indagini preliminari: a Ortensio non restò che abbandonare il dibattimento (seguito dal suo assistito, che si diede malato), contando di prendere tempo per la replica fino al 20 settembre, data fissata per l’Actio secunda. Ma fu una speranza vana: le prove erano così schiaccianti che la vittoria di Cicerone era ormai assodata. A quel punto, Ortensio poteva solo salvare il salvabile. Chiese per Verre l’esilio a Marsiglia (dove nel frattempo era fuggito con denaro, statue e preziosi), in pratica patteggiando la pena. Il processo si chiuse con la vittoria di Cicerone, che non dovette nemmeno pronunciare la sua seconda requisitoria (l’avrebbe pubblicata comunque, tramandandola fino a noi). Ma il trionfo non fu schiacciante come tutti si aspettavano. Verre fu condannato all’esilio e al risarcimento di tre milioni di sesterzi, una bazzecola rispetto a quanto aveva rapinato nei suoi mandati.

Quello di Cicerone era dunque un successo a metà, che tuttavia gli donò fama e aprì una carriera politica di primissimo livello. Curiosamente, parecchi anni dopo, nel 43 a.C., Verre e Cicerone ebbero una sorte
omune a causa dello stesso nemico: Marco Antonio. A Verre, trincerato nel suo esilio dorato, il triumviro intimò la restituzione di alcuni preziosi vasi corinzi: al suo rifiuto lo fece uccidere. Pochi giorni prima, Antonio aveva fatto eliminare anche Cicerone, che si ostinava con le sue vibranti Filippiche a difendere la morente Repubblica, ormai decisamente indirizzata a trasformarsi in Principato. La testa e la mano destra del grande oratore finirono issate sui rostri situati sopra la tribuna da cui parlavano i senatori: un truce monito per tutti gli oppositori di Antonio, segno inequivocabile che la Roma di un tempo era finita per sempre.

 

Elena Percivaldi

Storica medievista, saggista e giornalista professionista, collabora con le principali riviste di alta divulgazione del settore storico: “Medioevo”, “BBC History” e “Storie di Guerre e Guerrieri”, “Conoscere la Storia”, “Civiltà Romana”. All'attività di relatrice in incontri, conferenze e convegni in tutta Italia affianca la curatela di mostre storico-archeologiche e di eventi storico-rievocativi. Fa parte di vari comitati scientifici e ha scritto una ventina di libri, alcuni dei quali tradotti anche all'estero.

Articolo Precedente

Decebalo: l’eroica resistenza dell’ultimo re dei Daci

Articolo successivo

Porzus. “Osoppo”: dopo la strage comunista l’esperienza stay behind nella Guerra Fredda