Secoli prima che Cristoforo Colombo si imbattesse in quella che sarebbe stata chiamata America, i Vichinghi già solcavano l’Atlantico, affascinati dall’ignoto al di là dell’orizzonte. Conoscevano perfettamente il sistema fluviale russo, lungo il quale avevano raggiunto il Medio Oriente. E grazie ai loro viaggi erano riusciti a ritagliarsi un ruolo importante in un mondo che stava rapidamente cambiando.
La loro civiltà prosperava su una sola eccellenza, la navigazione: tutto ruotava intorno alle navi. Le loro erano le più grandi, le più leggere e veloci mai costruite. Poderose e funzionali, erano il risultato di un perfezionamento secolare che le aveva rese non solo resistenti alle terrificanti tempeste dell’oceano, ma capaci di scivolare nel ridotto alveo dei fiumi.
Grazie alle navi, i Vichinghi colonizzarono parti del mondo ancora sconosciute: dedicare tempo ed energie al miglioramento degli scafi rappresentava quindi un investimento molto fruttuoso. Mentre gli altri regni faticavano a difendere le proprie coste, i Vichinghi utilizzavano l’incontrastata supremazia marittima per commerciare ovunque, privilegiando sempre il trasporto sull’acqua e avvantaggiandosi della sua maggiore rapidità: una spedizione di cinque giorni per mare poteva equivalere a un mese via terra.
Spingendosi verso terre inesplorate e remote, essi sbarcarono in Islanda e raggiunsero addirittura, verso il X secolo d.C., il Nord America. Qui, però, le loro piccole colonie a Terranova (che essi chiamarono Vinland, attualmente parte del Canada) durarono molto poco (a differenza di quanto avvenne in Groenlandia, dove l’esperienza si concluse nel XV secolo), probabilmente a causa dei cattivi rapporti con i popoli locali, che essi conoscevano come skræling. Una moneta norvegese della fine dell’XI secolo è stata rinvenuta in un sito archeologico dei nativi del Maine, a dimostrazione che, per un certo tempo, vennero intrattenuti anche dei rapporti commerciali, che probabilmente proseguirono oltre il termine dell’esperienza coloniale.
È suggestivo immaginare quelle robuste e affusolate navi solcare baldanzose le onde, guidate dalle maestose e arcigne teste di drago fissate a prua. Ma non così affascinante doveva essere la vita per chi stava a bordo. Poiché non c’erano ripari a coperta, di notte ci si rifugiava sotto le vele, distese a mo’ di tenda. Per coprirsi, i Vichinghi usavano rudimentali sacchi a pelo ricavati dalle pelli. Il cibo era frugale: carne essiccata o conservata sotto sale irrorata con birra o latte acido o semplice acqua. I naufragi non erano infrequenti: durante il viaggio verso la Groenlandia, Erik il Rosso perse ben undici delle sue venticinque navi. In questi casi, la mancanza di comunicazione e di soccorsi precludeva ogni possibilità di salvezza e la notizia stessa del disastro impiegava settimane, mesi o addirittura anni per giungere alle orecchie di chi era rimasto in patria.
Ma fu proprio la determinazione con cui superavano ogni difficoltà a spronare i Vichinghi ad affrontare enormi rischi pur di tentare l’unica via che conoscevano: quella del saccheggio.