Una battaglia tra due falangi oplitiche nei secoli VII-V a.C. era di norma dettata da regole non scritte che prevedevano la disposizione sul campo di battaglia di due eserciti disposti in maniera pressoché speculare, in cui la componente di fanteria pesante era predominante. L’impiego di armati alla leggera, arcieri, frombolieri e cavalleria era piuttosto limitato, se non assente. Indipendentemente dagli effettivi messi in campo, in genere le truppe più valorose ed efficienti (nel caso degli spartani, il re e la sua guardia del corpo) erano dispiegate all’estrema destra, che pertanto era considerata la posizione più ambita. Al momento del contatto tra i due schieramenti si accendeva un furioso combattimento corpo a corpo finalizzato a spezzare la formazione nemica e metterne in crisi la coesione. In questo erano maestri i lacedemoni, grazie al loro proverbiale addestramento: dopo aver messo in fuga la sinistra avversaria, che avevano di fronte, la loro avanzata metteva in crisi anche il resto dello schieramento nemico che, per non essere preso alle spalle, era costretto a cedere su tutta la linea e a ritirarsi.
Falange obliqua tebana: la tattica
Per secoli i combattimenti tra formazioni oplitiche si erano limitati a dare vita a schieramenti speculari in cui le truppe più forti erano posizionate sull’ala destra, favorendo in questo modo la superiorità spartana. All’inizio del IV secolo a.C. però, lo stratega tebano Epaminonda riuscì a concepire una tattica innovativa chiamata “falange obliqua”, capace di mettere in crisi l’avversario nella battaglia di Leuttra (371 a.C.). Di che cosa si trattava? Alla vigilia dello scontro, scelse di assottigliare il centro e la destra del suo esercito al fine di concentrare le sue forze migliori in uno schieramento profondo sulla sinistra, laddove nessuno si sarebbe mai aspettato. All’inizio della battaglia inoltre, mentre la sinistra attaccava la prima linea di fronte, il centro e la destra avanzarono più lentamente in modo da ritardare il più possibile il contatto con il nemico (dando vita a una disposizione obliqua). La strategia si rivelò azzeccata: con i suoi opliti più capaci, disposti su linee molto profonde e quindi in grado di esercitare maggiore pressione, affrontò le truppe nemiche più agguerrite, mettendole fuori combattimento. Dopodiché il resto dello schieramento avversario fu costretto a ritirarsi per non correre il rischio di essere aggirato.
Falange macedone: la tattica
Sul finire del IV secolo a.C. la Grecia assistette impotente all’affermazione del Regno di Macedonia, capace di trasformarsi nella potenza egemone della Penisola Ellenica in virtù di una superiorità militare disarmante. I Macedoni non abbandonarono il classico schema a falange ma lo portarono a un livello di efficienza maggiore, introducendo una serie di cambiamenti che facevano perno sull’impiego di una lunga picca da impugnare a due mani (sarissa), l’alleggerimento dell’equipaggiamento e l’introduzione di una potente componente di cavalleria. La disposizione sul campo di battaglia pertanto rimaneva simile a quella oplitica, se non fosse stato per la presenza, ai lati dello schieramento, della componente a cavallo superiore alla controparte greca sia in termini di effettivi sia di addestramento. Ciò che cambiava in maniera sostanziale era pertanto la tattica di combattimento: i fanti macedoni, con le loro lunghe picche, impegnavano la controparte oplitica, mentre la cavalleria attaccava alle loro spalle dopo aver messo in fuga le truppe montate avversarie.
(Note: dell’argomento si parla sul numero 20 di Storie di Guerre e Guerrieri disponibile in digitale nello store Sprea Editori )