Hitler e l’economia: la visione del dittatore

Nel Mein Kampf (1925), Adolf Hitler traccia a grandi linee e in modo piuttosto vago il disegno della struttura economica che dovrà reggere il futuro Stato tedesco, ispirandosi al modello fascista. L’economia del Reich sarebbe stata articolata in un’organizzazione di tipo corporativo, in vista di una “cooperazione reciproca nel quadro più ampio di una comunità popolare”, rimarcando così l’importanza di un Volk (popolo) unito e teso alla conquista di un obiettivo comune.

La corporazione nazista, sottolinea Hitler, è “un organo di rappresentatività professionale” volto a elevare e rafforzare la sicurezza dell’economia nazionale stessa, rinsaldando nel contempo “la forza viva della comunità popolare“, resa consapevole del proprio ruolo e del proprio valore. Così, “l’operaio nazista deve sapere che la prosperità dell’economia
nazionale significa la sua stessa gratificazione materiale. L’industriale nazista deve sapere che la felicità e la gratificazione dei suoi operai sono la condizione primaria dell’esistenza e dello sviluppo della sua propria prosperità economica”.

Hitler e l’economia: non con l’oro ma con il lavoro

La stupefacente ripresa della Germania iniziata dopo l’ascesa al potere di Hitler, nel 1933, fu opera soprattutto del banchiere Hjalmar Schacht, esperto di questioni finanziarie. Benché non fosse nazista, Hitler lo nominò presidente della Reichsbank, la banca centrale tedesca, e poi ministro dell’Economia: in questi ruoli, e affiancato da validi collaboratori, in due anni Schacht fece miracoli, risollevando le sorti del Paese, cancellando la disoccupazione e migliorando le condizioni generali dei lavoratori, pur restringendone l’autonomia.

Hitler desiderava uscire dal sistema detto “gold standard”, secondo il quale gli Stati potevano battere moneta in base alle rispettive riserve aurifere; cercò, invano, di propagandare un sistema alternativo basato sulle “ore-lavoro”, che avrebbero dovuto fornire maggiore autorevolezza all’emissione monetaria dei singoli Stati.

Hitler e l’economia: sangue e suolo

Particolarmente caro a Hitler era il tema dell’agricoltura, vista nella sua duplice dimensione di attività economica e di tipica espressione della cultura tedesca. Il concetto di Blut und Boden, “sangue e suolo”, era ben radicato nella mistica völkisch già in epoca guglielmina, ma conobbe una nuova popolarità con il nazionalsocialismo. Nel Mein Kampf, Hitler proclama: “Il diritto più sacro in questo mondo è il diritto alla terra che si vuole coltivare con le proprie mani, e il più santo dei sacrifici è quello del sangue versato per essa“. Tale concetto sarà ripreso e sviluppato da Walther Darré, paladino del ruralismo: un pensiero decisamente ostile all’industrializzazione, al capitalismo e al liberalismo, ma non soltanto per motivi economici. Al contrario, in questa prospettiva il mondo rurale diviene il mezzo e il luogo privilegiato per il rinnovamento razziale e biologico del popolo tedesco: il contadino sarebbe diventato il custode e il riproduttore ideale di un patrimonio genetico dai caratteri tipicamente germanici. Le teorie ruraliste di Darré e del suo entourage erano legate al movimento nordicista, che vedeva nella “razza nordica” il vero e solo principio del progresso umano sul pianeta.

Questa visione s’inseriva perfettamente nel quadro dell’espansione a Est, con le persecuzioni contro gli abitanti dell’Europa orientale: la Russia doveva diventare terra d’emigrazione per i tedeschi e i popoli slavi, considerati “inferiori”, si sarebbero trasformati in schiavi del Reich.

 

Immagine via commons.wikimedia.org, Bundesarchiv, Bild 146-1969-054-53A / CC-BY-SA 3.0

Alessandra Colla

Laureata in Filosofia, giornalista pubblicista, studiosa di Storia e scienze umane, ha tradotto (da francese, inglese, spagnolo, tedesco) e curato testi di letteratura e saggistica. Collabora alle riviste "Eurasia" e "Terra Insubre". Tra i suoi ultimi lavori figura Grigioverde rosso sangue. Combattere e morire nella Grande Guerra del 15-18 (GoWare).

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